Alcune cose che abbiamo imparato dalla nostra esperienza con la protezione civile partecipata
di Chiara Missikoff
Quando pensiamo alla parola emergenza ci immaginiamo un evento imprevisto in cui la salute e la sicurezza di una comunità sono messe in pericolo. L’emergenza, qualunque sia la forma con cui essa si presenti, porta con sé circostanze eccezionali capaci di mettere sottosopra la nostra organizzazione personale e sociale: salute, abitare, accesso al cibo e all’acqua sono solo alcuni degli ambiti ad essere maggiormente colpiti durante crisi o eventi calamitosi mentre si inaspriscono le disuguaglianze. Con il ricorrere sempre più frequente di crisi ambientali e sanitarie, abbiamo imparato che queste richiedono interventi la cui efficacia spesso dipende dalla rapidità con cui sono intrapresi, una rapidità che non sempre consente l’attivazione delle comunità locali toccate dall’evento. Ne è un esempio la gestione dell’emergenza sanitaria causata dal virus covid-19, durante la quale, almeno in Italia, non si è riusciti ad innescare un dialogo tra istituzioni e società civile organizzata rispetto alle misure messe in campo. “Naturale!”, ci verrebbe da pensare, l’emergenza richiede risposte rapide e concrete e non si ha il tempo per attivare percorsi partecipativi. Sul lungo periodo, però, è dimostrato che la gestione top-down dell’emergenza porta ad una riduzione della capacità di risposta delle comunità, che finiscono per delegare la gestione della loro salute e sicurezza ad un sistema di risposta centralizzato non sempre efficace e capace di includere i più vulnerabili.
Ma è possibile invertire questa rotta e favorire la partecipazione attiva delle comunità locali nella gestione dell’emergenza? E come dotare i nostri territori di sistemi di risposta dal basso che mitighino gli impatti di eventi improvvisi e aiutino chi può esserne maggiormente colpito?
In questa nota illustriamo alcune riflessioni portate avanti da Sociolab, che da anni lavora nel campo della partecipazione nella protezione civile, in particolare nella pianificazione della prevenzione e gestione dei rischi naturali, in primis quello legato agli eventi alluvionali. L’approccio utilizzato nei nostri progetti si inscrive nella cornice del “Community based approach to disaster mitigation” (CBDM), che mira allo sviluppo delle capacità delle comunità locali di valutare la loro vulnerabilità e alla co-creazione con diversi stakeholders di strategie e risorse per prevenire e mitigare l’impatto dei pericoli identificati. Con l’arrivo del virus covid-19 e il successivo lockdown, ci siamo chiesti se fosse possibile immaginare una diversa partecipazione dei cittadini nella gestione dell’emergenza sanitaria, che prevedesse un’attivazione delle loro competenze, conoscenze e risorse creative. Seppur perfettamente consapevoli della differenza tra pandemie e disastri naturali e convinti che ogni emergenza sia profondamente legata al contesto in cui si verifica, la nostra esperienza ci ha anche insegnato che spesso le lezioni apprese dalla gestione di un evento emergenziale possono portare elementi di valore universali replicabili in altri contesti di rischio.
Ecco alcune cose che abbiamo imparato:
- La cultura del rischio si diffonde in tempo di pace
In anni di percorsi partecipativi sul tema, è capitato di ascoltare partecipanti raccontare di aver ignorato la vulnerabilità del territorio prima di esserne direttamente toccati, di non aver mai avuto occasione di leggere il Piano di Emergenza del proprio Comune e di non sapere quali norme di sicurezza adottare in situazioni di emergenza. Diffondere la cultura del rischio in tempo di pace è necessario per promuovere un approfondimento collettivo della conoscenza dei rischi e una diffusione della consapevolezza che la comunità può provvedere alla sua sicurezza. Questo lavoro consente di superare le individuali resistenze acritiche al cambiamento di prospettiva della gestione dell’emergenza, stimolando la partecipazione dal basso e quindi lo sviluppo delle capacità di risposta delle comunità locali.
2. Le comunità locali sono una risorsa fondamentale
Come abbiamo visto in alcuni grandi eventi, come gli incendi in Australia o l’emergenza covid-19 in Spagna ed Italia, la cittadinanza attiva è spesso in prima linea per rispondere alle emergenze e fornire supporto dal basso. Ma se un territorio è particolarmente vulnerabile o un’emergenza è destinata a ripetersi, perché non includere i cittadini nella preparazione alla risposta all’emergenza? Come ripetiamo spesso, nella gestione delle emergenze le persone non sono un problema, ma anzi sono spesso portatrici di soluzioni innovative per far fronte a problemi locali. Infatti chi meglio di chi abita un territorio ne conosce le caratteristiche peculiari, i fattori di rischio e le risorse attivabili? Inoltre, una comunità coinvolta, responsabilizzata e capace di intervenire e pianificare in situazioni di emergenza è una comunità più resiliente.
3. La comunicazione dell’emergenza ha bisogno di un linguaggio alla portata di tutti
Può succedere che la gestione di un evento emergenziale sia accompagnata da una comunicazione di tipo tecnico, veicolata con un linguaggio scientifico non efficace per la piena comprensione del fenomeno e delle regole di comportamento da seguire. Avere una strategia di comunicazione del rischio e delle norme di comportamento da adottare nelle diverse fasi di un evento (tempo di pace, allerta, durante e dopo l’emergenza), è fondamentale per dare le giuste informazioni e permettere ai non addetti ai lavori di comprendere il tema, interessarsi e partecipare in modo competente e pertinente. Attivare un percorso partecipativo è inoltre un’occasione per costruire un vocabolario comune, condiviso e comprensibile sul rischio e sulla sua gestione.
4. Per soluzioni innovative e inclusive servono spazi di partecipazione
Pianificare la gestione collaborativa di situazioni di emergenza è un processo che necessita una progressiva costruzione di relazioni di fiducia tra chi abita, lavora e amministra un territorio. Organizzare in tempo di pace momenti di confronto facilitato e creare spazi di partecipazione in cui i diversi attori della comunità possono avere un ruolo operativo, può generare soluzioni originali e collaborative di comunicazione, monitoraggio, prevenzione e cura di eventi emergenziali. Questa attivazione della comunità dovrebbe essere un’occasione per rendere la gestione collaborativa delle emergenze veramente inclusiva, stimolando la partecipazione e l’ascolto dei soggetti più vulnerabili e/o potenzialmente più colpiti, per cercare strategie comuni affinché nessuno rimanga indietro.
5. La scuola è una comunità fondamentale che non deve mai mancare
Durante le nostre sperimentazioni, l’istituzione scolastica si è distinta come attore fondamentale per la promozione della cultura del rischio e la capacità di risposta di ciascun territorio. La scuola, infatti, riunisce una comunità eterogenea — il personale, gli studenti e le famiglie che, pur appartenendo a un diverso background socio-economico, presentano obiettivi e interessi comuni, rappresentando dunque il canale più efficace per informare e coinvolgere una variegata comunità. Promuovere il coinvolgimento attivo delle diverse componenti della comunità scolastica è un ottimo mezzo per informare tutti i suoi membri su come agire correttamente in caso di emergenza, condividere con loro azioni e strumenti e attivare competenze. La centralità del ruolo della scuola e di una buona relazione tra scuola-famiglie e docenti è emersa chiaramente nel corso dell’emergenza covid: la capacità collaborativa di questi tre attori ha fatto la differenza nella risposta all’emergenza. Poter strutturare questo tipo di collaborazione all’interno di un piano di emergenza scolastico che tenga conto anche di eventi di quale quello appena trascorso appare non solo auspicabile ma necessario.
6. Serve un approccio di pianificazione integrata
Ogni territorio è un punto di incrocio di flussi informativi, di competenze e di risorse economiche, produttive, organizzative, associative e conoscitive. Il tema emergenziale, sia esso legato a rischi naturali o sanitari, inevitabilmente interseca altri settori di intervento pubblico, come ad esempio la pianificazione urbanistica e territoriale. Per rendere un Piano di Emergenza realmente efficace, è necessario puntare ad un approccio di pianificazione integrata del governo territoriale che metta al vertice l’identificazione degli scenari di rischio. La pianificazione dell’emergenza può dunque porsi come obbligato centro di raccordo per diversi processi di pianificazione, portando elementi di innovazione delle politiche pubbliche e nel governo dei territori.
Questi sono solo alcuni degli elementi di valore che pensiamo possano contribuire a creare una maggiore capacità di recupero nelle comunità, in cui lo sforzo collettivo può portare risultati importanti nella mitigazione degli eventi emergenziali. Elementi più puntuali possono essere trovati in questi due toolkit che abbiamo curato per il progetto Proterina 3é: uno rivolto a chi amministra i territori ed uno focalizzato sulle scuole, sono delle “cassette degli attrezzi” con cui progettare il percorso partecipativo più adeguato a seconda degli obiettivi, dei temi e dei bisogni che caratterizzano il territorio di riferimento.
Speriamo che questi strumenti siano utili per diffondere il messaggio che partecipare in emergenza non solo è possibile, ma è altamente consigliato, laddove il processo sia stato costruito attraverso un’attività adeguata e costante di informazione, coinvolgimento attivo e inclusivo e la condivisione a più livelli di soluzioni, azioni e strumenti.